Informazioni aggiuntive
Dimensioni | 17 × 24 cm |
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€28,00
Eccidi partigiani nel bellunese (1944-1945). Nel 1945 i vertici del Partito comunista italiano inviarono nel Bellunese, dall’Emilia e da altre parti d’Italia, un nutrito gruppo di esperti in tecniche di guerriglia che contribuirono a far lievitare gli agguati e le uccisioni. La furia omicida di questi “vendicatori”, fin qui storicamente occultata, è raccontata in questo libro.
Dimensioni | 17 × 24 cm |
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Nel 1945 il Veneto subì l’invasione di popoli ed eserciti di mezzo mondo. Regione tradizionalmente pacifica, avrebbe di certo subito danni minori nello scontro tra fazioni se i vertici del Partito comunista italiano non avessero provveduto a inviare nel Bellunese, dall’Emilia e da altre parti d’Italia, un nutrito gruppo di esperti in tecniche di guerriglia che contribuirono a far lievitare gli agguati e le uccisioni. La furia omicida di questi “vendicatori”, fin qui storicamente occultata, si espresse in una lunga serie di faide intestine, delazioni, rapine, stupri, estorsioni, eliminazione di prigionieri ed esplose a guerra finita, quando i vinti avevano deposto le armi e si erano arresi, e risultò quindi più facile colpirli. Non poteva essere altrimenti, dal momento che la vantata costituzione di “divisioni”, “brigate” e “battaglioni” partigiani in termini di organici si riduceva alla presenza di reparti numericamente e militarmente molto contenuti che operavano con sabotaggi, imboscate e azioni “mordi e fuggi”, provocando comunque sanguinose rappresaglie pagate quasi sempre dalla popolazione civile. Alla prova del fuoco dello scontro finale dei rastrellamenti del Grappa, del Feltrino e del Cansiglio, queste forze, disorganizzate a mal equipaggiate, si sfaldarono riapparendo a guerra finita per occupare località abbandonate dagli avversari, sfilare da vincitori a fianco degli angloamericani e consumare le ultime vendette su militari e civili, i corpi della maggior parte dei quali vennero fatti sparire nelle numerose foibe della zona, bruciati o lasciati insepolti. Nonostante questo poco lusinghiero album di famiglia, il “mito della resistenza” – basato anche su occultamenti storici, crimini e leggende – ha percorso tutta la seconda metà del XX secolo iniziando ad esaurirsi solo dopo il crollo del comunismo nell’Europa orientale.
Ritter Editore
Prefazione di Domizia Carafoli
Chi ritenga che un lungo elenco di nomi e di date possa essere solo un’arida documentazione, legga i libri di Antonio Serena e si ricrederà. In questi elenchi di nomi e di date è racchiuso l’immenso dramma della guerra civile italiana. Da questi nomi e da queste date scaturisce – vivissima a distanza di settant’anni – la tragedia di migliaia di vittime innocenti alle quali ancora non è stata resa piena giustizia.
Bisogna leggere “I giorni di Caino” e “La strage di Oderzo”, fino a quest’ultima opera, per rendersi conto di come la ricerca minuziosa, quasi ossessiva dello storico, la maniacale consultazione di documenti, di diari inediti, la ricerca degli ultimi testimoni sfoci in una grandiosa e tragica rappresentazione delle regioni italiane del nord-est negli “anni horribiles” 1944-’45, schiacciate fra la dura occupazione tedesca e l’imperversare delle bande partigiane, in cui si distinguevano per ferocia le formazioni comuniste, intente a una loro guerra privata che nulla aveva a che fare con la liberazione dagli occupanti tedeschi bensì mirava a instaurare un ordine sovietico. A costo di qualsiasi crimine.
Ecco che allora quei nomi diventano volti: civili, militari, giovani e anziani, spesso estranei anche alle formazioni della RSI, torturati e uccisi. E donne: innumerevoli vittime di un “femminicidio” (ma la bizzarra definizione non era ancora stata inventata) che nessuna delle dame della repubblica, assise sui più alti scranni del parlamento, ha mai pensato di denunciare. O soltanto di ricordare. Donne quasi sempre genericamente accusate di essere “spie” dei fascisti o dei tedeschi, magari perché avevano avuto solo la sfortuna di fare da interpreti presso un comando germanico. Le più giovani violentate e seviziate, tutte uccise con crudeltà, spesso sotto gli occhi dei figli bambini o dopo le ignobili farse dei “processi partigiani”.
Ed ecco che anche le date diventano ben più che semplici numeri: scandiscono giorno dopo giorno, mese dopo mese, il tempo della paura, del tradimento, delle scariche di mitra alle spalle. Le notti segnate dall’incubo dei colpi violenti alla porta: “Aprite o la buttiamo giù!”
Questa più recente opera di Antonio Serena è incentrata sul Bellunese, una delle zone più martoriate dell’Italia orientale. Lo stesso Giorgio Pisanò nella sua “Storia della guerra civile in Italia” calcolò che furono circa 600 le vittime delle violenze partigiane nelle montagne fra Treviso e Belluno. Eccidi nell’Agordino, in Cadore, in Cansiglio.
Al Pian del Cansiglio era la base della famigerata “Divisione Nannetti” cui appartenevano anche partigiani di altre parti d’Italia fra cui un “battaglione” di 45 russi. È proprio nel massiccio trasferimento di militanti comunisti inviati da Bologna in Cansiglio per addestrare le formazioni partigiane che l’autore individua la causa della recrudescenza della guerra civile nel Bellunese, nonché i numerosi problemi di coordinamento con altre formazioni partigiane, dal momento che i comunisti, nel perseguire la loro guerra particolare, spesso operavano come schegge impazzite, venendosi a trovare in contrasto, anche cruento, con gli altri.
Gli “insensati” (come li definisce Serena) attacchi dei partigiani alle truppe tedesche non avevano alcun effetto utile allo sviluppo della situazione bellica ma esasperavano l’esercito occupante, esponendo alle rappresaglie le popolazioni inermi, regolarmente abbandonate dai resistenti. La tragedia di Sant’Anna di Stazzema si è ripetuta più volte anche nel Bellunese.
Alla fine dell’estate del 1944 i comandi tedeschi decisero di eliminare le roccaforti partigiane nell’arco alpino e di attaccare le bande che si erano radunate intorno al massiccio del Grappa, responsabili di gravi fatti di sangue. È l’”Operazione Piave”: il 21 settembre circa 7000 uomini fra Wehrmacht, SS e il 2° Battaglione “Bozen” più scarsi elementi delle Brigate Nere, della Divisione “Tagliamento” e della Decima MAS, attaccarono da più parti il Grappa. Per le formazioni partigiane, divise fra di loro e incerte nella strategia, fu la disfatta.
Ai 300 uccisi nello scontro seguì la fucilazione di altri 171, molti dei quali impiccati lungo i viali di Bassano. Una reazione tremenda che provocò lo sdegno della stesso Mussolini che intervenne presso i comandi tedeschi per far cessare la strage.
Con l’ imparzialità dello storico che ha a cuore solo la verità, Serena non nasconde l’entità della tragedia del Grappa e a differenza della roboante storiografia resistenziale, cerca di ricostruire la vicenda calandosi nell’ottica dei partigiani, non nasconde l’orrore per la spietata vendetta dei tedeschi e la pietà per gli uccisi.
Ma c’è ancora un aspetto da sottolineare nell’opera di Antonio Serena: “Benedetti assassini” come le opere precedenti viene a completare – con il rigore dell’indagine storica e l’ampiezza delle fonti – la vastissima storiografia che fin dai primi tempi del dopoguerra si adoperò per raccontare la verità dei vinti, sepolta sotto il trionfale racconto dei vincitori. Migliaia di scritti, diari, lettere, ricostruzioni tutte regolarmente ignorate dalla cultura dominante. E ci è voluto un Giampaolo Pansa (da sinistra) perché tutto questo materiale storiografico venisse finalmente sdoganato e – anche solo come citazione – approdasse ai fasti della grande editoria.
Ma l’indagine di Antonio Serena va ben al di là del pur meritevole lavoro di collazione e raccolta di scritti ignorati. Scendendo in profondità senza perdere di vista il teatro dove si svolgono gli avvenimenti, regala al lettore un quadro vasto e preciso e mette un punto fermo alla storia della guerra civile italiana nelle terre venete.
L’autore
Antonio Serena è nato e risiede in Veneto. Giornalista e scrittore, già docente di Civiltà francese nei licei e parlamentare di quarta legislatura, coordina attualmente la rassegna stampa on line «liberaopinione». Laureato in Lingue e letterature straniere, in Lettere moderne e in Storia, si è specializzato in Storia contemporanea all’Università di Urbino. Ha pubblicato L’epurazione in Francia nel secondo dopoguerra (Ferretti 1974), I giorni di Caino (Panda 1990, rist. Manzoni 2001), Bestiario parlamentare (Ottaviani 1995), La cartiera della morte (Mursia 2009), I fantasmi del Cansiglio (Mursia 2011), La strage di Oderzo (Manzoni 2013), Drieu, aristocratico e giacobino (Edizioni Settimo Sigillo 2013)
Il volume è una raccolta di riflessioni e di parole, le parole della montagna che diventano pensieri. Sono le parole delle ALBE fatte di silenzi. Sono le parole della NOTTE che ha ceduto con discrezione i suoi segreti al VENTO. Sono le parole delle ACQUE che gorgogliano frale ombre di un BOSCO pieno d’incanto. Sono le parole delle ferite inferte dall’uomo ai Monti e che ora raccontano struggenti vicende di una GUERRA non troppo lontana. Sono le parole dell’INVERNO che sigilla la ROCCIA in uno scrigno di diamanti. Sono le parole delle NUVOLE, scialli leggeri dispiegati a coprire le spalle di giganti di pietra: le MONTAGNE.
L’autrice spiega di “aver cercato di fermare il suo tempo nei pensieri che ha raccolto nel lungo cammino che l’ha portata a frugare fra le pieghe di roccia, nei cupi canali, nella luce sfolgorante del sole, nella bandiera turchina del cielo. Un piccolo ricordo per farle pensare che vivere “quassù” non è mai vivere soli e che ogni parola è dono prezioso.
Dopo “le scarpette di vernice” che ha tanto colpito e commosso, Viviana Vazza, di Longarone superstite della tragedia del Vajont torna a riprendere la penna in mano per consegnarci questa ” carezza alla memoria”, una sorta di riconciliazione con il doloroso passato. Ne esce un quadro molto bello: la storia di un luogo e di una comunità e la presentazione di personaggi di grande intensità. Nella sua presentazione il Professor Gioachino Bratti ex-sindaco di Longarone auspica che questo libro possa sfiorare chi legge queste pagine, soprattutto i giovani, per renderli partecipi di un passato ricco di valori e di insegnamenti.
Viviana Vazza nasce a Longarone: all’età di 16 anni si confronta con la tragedia del Vajont che stravolge completamente la sua vita. Nonostante il dolore, ha sempre cercato di trovare spunti per lenirlo e trova negli studi di psicodramma una forza per superarlo. Ha avuto una vita ricca, dipinge e considera la scrittura una “manna del cielo”
Questa non è una guida, questa non è una mappa, questo non è un libro. E’ la traduzione in testi, immagini e dati della magnifica traversata del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi editati da un gruppo di appassionati che le vivono, le percorrono e le amano.
Progetto nato dalla collaborazione tra il Club Alpino Italiano sezioni di Agordo, Belluno, Feltre, Longarone, Oderzo e Val di Zoldo e il Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi
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